Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza n. 32157/20; depositata il 16 novembre
Partire per le vacanze estive e affidare il proprio animale domestico a una persona non idonea a prendersene cura significa, in sostanza, porne in pericolo lo stato di salute e rischiare una condanna. Esemplare la vicenda riguardante una donna, ritenuta colpevole per le precarie condizioni in cui sono stati ritrovati i suoi tre gatti, costretti in una camera del suo appartamento durante un periodo trascorso da lei in vacanza. Inutile il richiamo difensivo al fatto che ella avesse affidato i felini ai suoi figli: questi ultimi erano minorenni e, vista l’età, non adeguati al compito loro assegnato.
Sotto processo una donna, accusata di avere abbandonato i suoi tre gatti. Ricostruita la vicenda – cominciata con un sopralluogo dei Carabinieri e della Guardia zoofila nella casa della donna –, i Giudici del Tribunale ritengono sacrosanta la condanna.
In sostanza, alla padrona dei tre felini viene addebitato di averli detenuti «in condizioni incompatibili con la loro natura e produttive di gravi sofferenze, e, in particolare, in una situazione di scarsa igiene, con presenza di urine e feci sparse su giornali distribuiti sul pavimento, con la lettiera satura di feci e di urina, nonché con la ciotola dell’acqua dell’abbeverata stagnante e sporca». I Giudici di merito fissano la pena in «1.500 euro di ammenda».
La donna contesta la decisione del Tribunale, ritiene illogica la condanna, e tramite il proprio legale prova a giustificare in Cassazione le proprie condotte.
Nello specifico, ella spiega che «prima di partire per le ferie estive, aveva delegato il compito di accudire i propri animali domestici ad una conoscente che, però, aveva successivamente negato il suo supporto», e quindi «era stata costretta ad incaricare i propri figli della cura degli animali».
La donna aggiunge poi che «per comune esperienza un gatto domestico può resistere senza subire le conseguenze di un abbandono per alcuni giorni» e precisa che «la situazione di sporcizia presente nell’appartamento era dovuta ad un furto subito ed alle condizioni di caldo e umido tipiche della stagione estiva».
Secondo la donna, quindi, «difettano sia l’elemento oggettivo che l’elemento soggettivo del reato contestato».
Prima di entrare nei dettagli della vicenda, i Giudici della Cassazione tengono a ribadire che «la detenzione impropria di animali, produttiva di gravi sofferenze, va considerata, per le specie più note (quali, ad esempio, gli animali domestici), attingendo al patrimonio di comune esperienza e conoscenza» e «le gravi sofferenze non vanno necessariamente intese come quelle condizioni che possono determinare un vero e proprio processo patologico, bensì anche i meri patimenti». Ciò significa che «assumono rilievo non soltanto quei comportamenti che offendono il comune sentimento di pietà e mitezza verso gli animali per la loro manifesta crudeltà, ma anche quelle condotte che incidono sulla sensibilità psicofisica dell’animale, procurandogli dolore e afflizione». Difatti, «è stato ritenuto integrato il reato anche in situazioni quali la privazione di cibo, acqua e luce o le precarie condizioni di salute, di igiene e di nutrizione», precisano dalla Cassazione.
Peraltro, si è anche precisato che «la grave sofferenza dell’animale, elemento oggettivo dell’abbandono, deve essere desunta dalle modalità della custodia che devono essere inconciliabili con la condizione propria dell’animale in situazione di benessere».
In questo caso, grazie al sopralluogo effettuato dai Carabinieri e dalla Guardia zoofila, «venivano rinvenuti nell’appartamento della donna, i cui mobili e divani erano ricoperti di escrementi ammuffiti e di urine, tre gatti affamati, rinchiusi in una stanza», e per giunta «uno dei felini presentava un’escrescenza sul muso che, a seguito di visita veterinaria, si rilevava essere un tumore molto esteso (che partiva dal cranio ed arrivava sino alla bocca). Il gatto in questione, in stato di denutrizione, veniva sottoposto a due interventi chirurgici e, poi, aggravatosi in maniera irreversibile, veniva soppresso».
Per i Giudici «la detenzione in tali condizioni dei gatti domestici della donna, costretti in un luogo ristretto e malsano per lungo periodo e senza adeguate cure, deve ritenersi certamente incompatibile con la loro natura e produttiva di gravi sofferenze per gli animali, gravi sofferenze ancora più evidenti per uno dei gatti che», come detto prima, «era affetto da una grave patologia e, quindi, bisognevole anche di adeguate cure veterinarie».
A fronte di tale quadro è irrilevante, secondo i Giudici, «la circostanza che la donna avesse affidato a terze persone la cura dei gatti». Anzi, «tale comportamento si configura come colposo, in quanto la donna, rimanendo lontana dalla propria abitazione per un lungo periodo di ferie, aveva delegato la cura dei gatti ai propri figli minori (che vivevano con il padre presso i nonni e che si recavano presso l’abitazione della madre a giorni alterni), soggetti prevedibilmente inadeguati al compito loro assegnato, sia per l’età che per la durata dello stesso».
Invece, la padrona dei felini, «a fronte del lungo periodo di assenza e della impossibilità di avvalersi di un sostituto adeguato per la cura dei propri animali domestici», avrebbe dovuto «affidare i gatti ad una struttura, pubblica o privata, di custodia e cura», chiosano dalla Cassazione.
Sacrosanta, quindi, la condanna della donna, che non ha tenuto una «condotta diligente» e idonea a tutelare la salute dei suoi animali.